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JAMAICA FAREWELL - reportage dalla terra del reggae.

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‘JAMAICA FAREWELL’ : reportage dalla terra del reggae.

 

Un giorno qualunque degli anni ’70. Ore 10.30: «Il Comandante e la Crew dell’Air Jamaica vi danno il benvenuto a New Kingston e vi augurano un buon soggiorno sull’isola.»

 

Ad ogni arrivo di un volo un nugolo di gente colorata ti viene incontro. Uno sconosciuto tra la folla ti sorride. Sì, proprio a te! Che importa se non ricordi dove hai incontrato prima il suo volto sorridente, dallo sguardo profondo, un po’ assonnato: «Hallo White Man!» - dice. E solo allora riesci a capire che si tratta del boy mandato dall’Agenzia di Viaggi, anche se detto così ‘white man’ a un europeo suona come fosse ‘gringo’  rivolto in Mexico a un americano. Il boy ti prende la valigia, ti fa salire sull’auto e a velocità folle percorre le strade cittadine al suono del clackson e della sua radio tenuta a un volume impossibile. Nel tempo intercorso dall’aeroporto al centro città hai assorbito così tanto rumore e ascoltato tanta di quella musica che sei già mezzo ubriaco e ben presto anche tu penserai e parlerai al ritmo cadenzato del reggae. L’altra metà, per una ubriacatura totale, arriva dall’aria che si respira, profumata di marijuana pura, coltivata ovunque anche nelle siepi dei giardini pubblici e nei vasi alle finestre, che alla fine del viaggio anche i vestiti che indossi saranno oggetto di quel profumo inebriante e un po’ sordido che instupidisce.

Non c’è che dire, la musica è indubbiamente il quinto elemento di tutta la vita jamaicana; la si sente ovunque da mattina a sera, dalle porte sempre aperte delle case, durante la notte sulle spiagge attorno ai falò, nei locali ‘bidonville’ dove si va a bere la birra e incontrare i musicisti a zonzo. Sembrerebbe che qui tutti siano nati musicisti, chi non strimpella, percuote delle bacchette sulla latta di un bidone vuoto, oppure canta, si fa per dire, piuttosto imita i ‘grandi’ idoli che hanno fatto della Jamaica un crogiuolo di ‘eletti’ unti da quel ‘rasta’ leggendario che l’ha portata sull’isola dalla lontana Africa, ma qualcuno afferma essere giunta fin qui con le navi negriere dirette nelle Americhe. La musica ‘nera’ è indiscutibilmente la matrice del reggae, una forma contaminata del R&B negro americano che ha acquisito nel tempo significato tipico di ‘consumo’, anche se talvolta legata a un uso ‘rituale’ che la vuole d’iniziazione a un proselitismo mediatico-musicale. All’ascolto presenta fin dall’inizio un impatto drammatico e vivace di materiale folk – etnico plasmato su esperienze musicali attuali. Allo stesso modo la musica jamaicana è divenuta tipica dell’isola come il ‘samba’ lo è per il Brasile, il ‘tango’ per l’Argentina, il ‘calypso’ per i Caraibi, il ‘soukouss’ per la Nigeria, sì che dire ‘reggae’ è al dunque come dire Jamaica.

La musica jamaicana è dunque una forma di ‘salsa’ condita di aromi tropicali come il rhum e la marijuana, non legata a un preciso tipo di danza locale tradizionale, bensì che lascia libero il corpo al movimento slegato da schemi e condizionamenti di sorta. È una musica libera sotto ogni aspetto, completamente ‘free’ che scaturisce dall’improvvisazione, dall’estro e dalla loquacità dell’interprete, sia esso autore di versi sciolti o musicista improvvisato. È infatti sufficiente camminare per la strada o lungo le interminabili spiagge bianche ricoperte di vegetazione lussuriosa per apprendere l’autentico significato indipendente del ‘reggae’. Quella di ‘andare a zonzo’ è senz’ombra di dubbio l’attività preferita e più seguita dai giovani jamaicani, forse l’aspetto più eclatante di una società che apparentemente sembra non professare alcuna attività se non quella relativa alla musica. Di fatto è possibile parlare di musica con chiunque s’incontri per la strada. Tutti conoscono le ultime novità, c’è chi parla dei cantanti ‘reggae’ come di amici incontrati appena la sera prima, chi è parente di quello o di quell’altro e ti invitano a incontrarli magari la sera stessa o nel locale improvvisato in una baracca fatta di lamiere, dove in realtà servono qualche bevanda, perché poi la musica in effetti si fa fuori, nello spiazzo adiacente, con altoparlanti gracchianti o sfondati e i jack delle chitarre elettriche attaccate ai pali dell’elettricità cittadina.

A sua volta Jmmy Cliff era uno di loro, viveva in mezzo a loro, avanti tempo ritenuto da molti ‘messaggero del reggae’ per la sua limpida vocalità e un sound vibrante, che con  le sue canzoni ottenne un certo successo, ma che poi lo ha trasformato in uno show-business-man famoso in tutto il mondo, apprezzato per la trascinante colonna sonora di “The harder they come” che lo portò lontano dall’isola. Infatti ha vissuto poi tra Londra e New York, ma la lontananza non ha giovato alla sua carriera anche se qui sono ancora moltissimi i suoi fan. Un autentico ‘poeta di strada’ era invece Joe Higgs la cui musica sembra possedesse “l’armoniosa grazia di un uccello in volo”. Egli apparteneva al gruppo cosiddetto ‘ribelle’ della contestazione facile che egli usò in difesa della libertà: “Indipendentemente dal colore della pelle – egli ha detto – la cosa essenziale è quella di lasciare alle società sottosviluppate di evolversi con i propri mezzi, magari attraverso la musica”, in un ideale abbraccio con i fratelli negro-americani e africani. Un aspetto questo davvero interessante che permette qui di avvicinarci a ciò che il ‘reggae’ comprende nel suo impasto generale: l’insieme ideologico - musicale culturale e religioso che trova sull’isola la sua massima espressione.

L’appartenenza di un certo numero di artisti alla religiosità denominata ‘Rastafari’ impregna il ‘reggae’ di colore folkloristico e fideistico, ma religione e successo commerciale non sempre vanno d’accordo. Artisti quali Bob Andy, Bunny Livingstone, The Maythals, Lorna Bennet, The Heptones, Zap Pow, sono forse i nomi più conosciuti, ma non abbastanza per dirsi fautori del successo che ha portato il ‘reggae’ fuori dai confini nazionali. Molto più ha fatto a suo tempo Harry Belafonte (nato a New York) con il suo “Jamaica Farewell” (Calypso) ed altri successi che, ben lontano dal ‘reggae’, per primo focalizzò l’orecchio del mondo sulla musica caraibica. Ma è a Bob Marley e The Waylers che va l’onore di essere ancora oggi, a distanza di anni dalla sua scomparsa, l’originale portatore della bandiera del ‘reggae’ jamaicano. Arrangiatore delle proprie canzoni, attivista sociale e religiosissimo, definito ancora in vita la ‘Leggenda’ di un vivere la musica in modo ‘hard’ come ‘forma’ autentica di espressione non imitativa di altri generi. Colui che ha rappresentato il suono della Jamaica ribelle ed ha conservato intatto il suo ‘messaggio’ popolare e altruista:

“Sì, è vero, io canto la protesta, ma non solo” – ha detto durante una intervista negli anni che lo vedevano in cima alle vendite discografiche mondiali. “Io non canto – ha poi aggiunto – che ogni cosa va bene quando nulla va bene. Io canto la realtà dei jamaicani di sempre, ma non esclusivamente per i jamaicani. Per tutti coloro che trovano nella povertà il riscatto della propria esistenza, in America come in Africa, come in Viet-Nam”. (..) “La parola successo non significa niente per me. La musica che suono vuole essere un messaggio. Le cose che contano sono la pace, l’amore, quei sentimenti che ogni popolo va purtroppo dimenticando.” Lasciando intendere che la sua integrità d’intenti fosse distante dai profitti derivati dal su o stramaledetto e amato successo che pure gli arrise.Tuttavia la musica ‘reggae’ è forse l’unica al mondo che possa affermare certi principi che Bob Marley ha tenuto ‘alti’ nel suo mestiere anche se la censura ha spesso tagliato corto non permettendogli di esprimersi nei concerti e poter dire ciò che voleva.

È quanto accaduto anche a Peter Tosh che nel 1975 realizzò un single a favore della liberalizzazione della marijuana e per questo censurato e bandito dalla radio locale. Successivamente entrato nello staff artistico dell’etichetta Rolling Stones gli fu permesso di pubblicare il brano in un album dal titolo “Bush Doctor” che ha visto la collaborazione di Keith Richards e Mike Jagger. La voce di Peter Tosh, tipicamente ‘rasta’ riesce qui a creare un’atmosfera eccellente sotto ogni aspetto, scaturita dalla pacata e a volte frizzante allegria tipica della musica ‘reggae’. A distanza di anni è possibile dire che la morte di Bob Marley ha lasciato un grande vuoto non solo in Jamaica bensì nel mondo della musica più in generale tra i suoi fan sparsi in tutto il mondo e tra i fedelissimi a lui legati attraverso quel filo cultural-religioso che lo vedeva impegnato in prima linea.

Colgo qui l’occasione di riportare la chiusa di un articolo di Antonio Orlando apparso in “Musica & Dischi” (del quale sono stato collaboratore) un anno dopo la sua morte avvenuta nel 1981. “Oggi a un anno di distanza, quella sera appare ormai lontana e purtroppo irripetibile. La morte di Marley ha infatti inferto un altro duro colpo al sogno di immortalità che accompagna costantemente l’espressione musicale giovanile e che si manifesta nella consacrazione a mito di tanti musicisti: ma , lo ripetiamo, è una morte diversa questa, perché Marley non ha mai fatto parte di quello ‘star-system’ al quale avrebbe potuto benissimo appartenere per la sua importanza nel panorama musicale mondiale (anche se negli USA il reggae e Marley non hanno mai raggiunto una grossa diffusione) – ma lo ‘star-system’ è l’espressione stessa di “BNabylon”, e la civiltà e la cultura dei bianchi che è sempre rimasta estranea al musicista giamaicano (pur essendo quest’ultimo sceso a patti con essa).” (..) “Per Marley quindi non ci saranno suicidi, scene di disperazione collettiva e probabilmente mancherà anche la speculazione (a partire da quella discografica) immancabile in casi simili: una morte ‘laica’ rispetto a quelle ‘mitiche’ di tanti altri. E che proprio la morte di Marley, musicista religiosissimo, sia priva di aspetti epico-religiosi (e in Giamaica la sua morte è stata celebrata con una festa di gioia) è un fatto che deve far riflettere: un altro aspetto positivo dei brevi 36 anni di vita di Bob Marley”.

Oggi una stella con il suo nome è a lui dedicata sulla Walk of Fame a Hollywood. Anche per questo “Jamaica! Hai Jamaica!” – così inizia una canzone famosa, se non avete ancora fantasticato ad occhi aperti dovete venire qui e immergervi in questo mare che la circonda, bruciarvi al sole che riempie l’intera giornata, i pensieri delle vostre notti di veglia; dacché le preoccupazioni resteranno solo idee che appartengono ad un'altra vita; la musica colorerà i vostri ‘sogni di sabbia’ che vi sembreranno reali … forgiati sulle note di motivi e canzoni da memorizzare: "No woman no cry" "Could ypu be loved" "Get up stand up" "One love/People get ready" "I shot the sheriff" "Redemption song" "Satisfy my soul" "Exodus" "Babylon" "Waiting in vain" e tantissime altre.

 

Discografia Reggae: “This is Reggae Music” - artisti vari (Island) “Oh Jamaica” – Jimmy Cliff (EMI) “Bush Doctor” – Peter Tosh (EMI) “Protest” – Bunny Walker (Solomonic) “Hits” – Joe Higgs (Ashanti) “Jump Up” – Byron Lee “Rastaman” – Bob Marley (Island) “Natty Dread” – Bob Marley (Island) “Kaya” – Bob Marley (Island) “Exodus” – Bob Marley “Legend” – (Bob Marley compilation) (per la discografia completa di Bob Marley vedi in Wikypedia).

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